giovedì 24 ottobre 2019

Paranoia




Let paranoia in



L. entra nel bar dove fa colazione un paio di volte alla settimana.
Il barista, pettinato come Big Jim, ha sì e no vent'anni ma ne dimostra quaranta; la scorge in mezzo a vecchi, impiegati e commesse e le prepara il cappuccino senza dire niente. Un dito sotto il bordo della tazza, a dire la verità: manca latte.
La proprietaria, capelli cotonati e un enorme crocifisso tra le pieghe del collo, gira tra i clienti con un bavoso in braccio.
“Buongiorno, Signora.”
“Buongiorno, L.”
Il bavoso starnutisce dentro il cappuccino. L. si scansa e ne infila mezzo nella scollatura. Si volta, bestemmiando sul reggiseno trasformato in tazza. Pensa di chiedere una cannuccia per poter raccogliere il liquido che staziona tra i seni ma, indovinando lo sguardo del tavolo di pensionati di fronte a lei, decide di assorbirlo con qualche fazzoletto di carta.
La signora le ballonzola accanto.
“Ci scusi, mi scusi, è così piccolo, ha sei mesi, è il mio nipotino. Mia figlia è andata a un colloquio di lavoro, si sa, con un solo stipendio non si campa una famiglia.”
“Nemmeno un individuo, Signora.”
“Eh, ma quando ci sono i figli, cara...posso darti del tu? Dai, prendilo in braccio. Senti quanto pesa...”
“Grazie Signora, come se avessi accettato.”
Nel senso dell'accetta.
“Ti faccio rifare il cappuccino, cara?”
“No, grazie, tanto non mi andava stamani.”
L. cerca una via d'uscita, per fortuna fuori piove. La matrona le corre dietro col bambino.
“E tu, non hai una famiglia?”
L., incrociando le dita nella tasca dei jeans, fa cenno di no. La dolce capobranco china la testa, strizza gli occhi porcini e distende la bocca in un sorriso compassionevole.
Se tu fossi mia madre, avresti già ricevuto un colpo d'accetta sul taglio delle labbra e un altro a spaccare in due la testolina da media statistica di donna italiana, nata tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta. Ti ci metto dentro la carta assorbente, cara, così ripuliamo quella inutile pappa grigia contenuta nella tua scatola cranica. La sostituisco con penne al pomodoro, basilico e un po' di parmigiano. Richiudo con due strisce di silicone trasparente.
Ora porta via il tuo frutto bagnato di schiavitù e fammi uscire.
Vedrai che, quando sarà grande, ti strangolerà con la catenina d'oro, quella con il ciondolo ad angelo custode che gli avrai senz'altro regalato per la prima comunione.
Speriamo. Sarebbe un bel passo avanti per l'evoluzione della specie.
“Buongiorno, Signora.”

(Laura Bucciarelli, 2009/2010/più o meno)

sabato 14 settembre 2019

Dinosauri


Il bambino di sei anni mi chiede cosa penso del mostro che ha in mano.
È buffo.
Non è buffo, dice. Macché buffo. 
E lo guarda. Fauci bianche spalancate. Denti da coccodrillo, corpo – celeste – da dinosauro, muscoli da rinoceronte. Scaglie lungo tutto il corpo e la coda, color giallo pallido. 
I mostri hanno colori pastello. Sanno di plastica e primavera. Di nontiscordardime e fiorellini di camomilla.
Gli adulti, mio padre e la madre del bambino, banchettano con teste d'agnello tagliate a metà. Lingua e cervello spaccati, bulbi oculari integri. L'occhio salta fuori dal piatto come un'oliva di gomma marrone.
Io puzzo di umanità come il sedile di un autobus. E sudore, muco, saliva si seccano sulla mia pelle screpolata e poi unta di crema alla calendula.
Il bambino ha staccato la testa del mostro con un solo, poderoso morso. Nello sforzo ha perso un incisivo. 
Il collo del mostro, celeste anche nell'anima, si colora di rosso. Una goccia, due.
Io lo guardo. Il bambino non piange. 
Macché buffo. Non è buffo. 
E io rido, rido. Mi manca il fiato.
Se ci penso, mi manca il fiato.


(Laura Bucciarelli, non ricordo quando)

lunedì 8 luglio 2019

Il mio requiem


Non riesco a sterzare e volare giù dal ponte. Ora raddrizzo la curva, mi spiaccico sul parapetto. Non morirò e mi chiederanno se ho provocato apposta l’incidente perché non ci saranno tracce di frenata sull'asfalto e dirò sì, certo e tutti mi lasceranno in pace perché io voglio essere lasciata in pace.
Sì, adesso parto col rosso, sì, mi butto sotto un autobus, sì, scavalco il parapetto, affondo il coltello. Sul terrazzo, guardo di sotto. Sono al secondo piano, rimarrei storpia e così avrei nuovi motivi di cui lamentarmi e pessime ragioni per ammazzarmi.

Domenica mattina ho deciso di lavarla. Non si alzava dal letto e non mangiava più. Aveva la faccia gialla. La sera prima aveva rifiutato l’antidolorifico, le avevo messo la pasticca in bocca e lei mi aveva morso un dito. La pasticca, poi, l’ho ritrovata nel letto. Erano giorni che, nel torpore, si lamentava e respirava rumorosamente. Quella mattina le misurai il diabete, poi preparai una bacinella con acqua tiepida. La spogliai, la lavai con una spugna, le spalle, il petto, le gambe, una alla volta, le cambiai la biancheria intima e la camicia da notte. Era arresa. E pesante. Quando la distesi, le feci stavano già iniziando a riempire le mutande, non finivo di pulirla che si sporcava di nuovo, respirò due volte, poi smise. Rimasi a guardarla, aveva gli occhi spalancati su di me, forse respirò un’altra volta, io la chiamavo.
Il medico chiese se volevo che provasse a rianimarla. Gli infermieri la misero a terra, le tagliarono la camicia da notte e tirarono fuori quello strumento da inserire in gola. Il medico disse che dopo sarebbe stato peggio. Lo fermai. Dopo, gli chiesi se era morta di sicuro.

Temevo più di tutto il momento in cui la bara sarebbe stata murata perché era stata la cosa che, in passato, mi aveva impressionato di più e invece mi sono messa a osservare i gesti del muratore. Metteva poco cemento e uno, due, tre mattoni interi. Il quarto lo doveva spezzare perché intero non entrava. Lo rompeva sul pavimento, con uno dei suoi strumenti. Frantumò tre o quattro mattoni prima di ottenere la misura giusta. Di spalle, accucciato, forse sentiva i miei occhi addosso e io mi guardavo intorno, in cerca di complicità sulla divertente imprecisione di quelle azioni.

Sì, adesso mi spacco il cranio con un martello, sì, mi faccio pestare finché non ho tutte le ossa spappolate.


(Laura Bucciarelli, 2009 o giù di lì)

venerdì 21 giugno 2019

Film


Una strada della città di nome B, giorno.
Un ombrellone rosso a pois bianchi con una stecca storta.
La “zampa” che lo regge, a squame verde-arancio, cangiante, è inserita dentro un tavolino tondo.
Sotto l'ombrellone, due poltroncine, anch'esse rosse a pois bianchi e un tappeto simile alla zampa, per essere coerenti.
Due persone, sedute sulle poltroncine, hanno i piedi nudi e sorseggiano limonata mangiando dolcetti rosa.
Parlano di camaleonti e dei quadri di Mark Rothko visti a New York, specialmente di uno verde-azzurro con due sottili strisce, una arancio e una giallo-oro, che lo tagliano in orizzontale.
Parlano anche dei rinoceronti perché almeno un rinoceronte è sempre presente per le strade di B.
Anche le tigri bianche sono un buon argomento di conversazione.
I rinoceronti pascolano sull'asfalto.
Fenicotteri rosa, tigri bianche e caimani dagli occhiali sostano lungo i marciapiedi.
E molti canarini affollano il cielo grigio di B.
Sono tutti a pois.
Eccetto quelli gialli che volano sugli alberi con i frutti rossi.
Orsi e orsetti si affacciano alle finestre e guardano la scena bisbigliando.
Passa un treno, fischia fischia.
Un fischio forte forte.
Un rinoceronte scappa.
La limonata è finita, sparita senza lasciare tracce.

Il treno si ferma in un luna park abbandonato.
È buio, gli alberi sono fitti fitti.
Le due persone che erano sotto l'ombrellone scendono dal treno e si addentrano nel bosco che ha mangiato le giostre e le montagne russe.
Si sentono rumori metallici.
I due inciampano su qualcosa di freddo e rigido.
Lo esplorano con le mani, scavalcano una specie di parapetto.
Non si vede niente.
Sentono che stanno perdendo l'equilibrio.
Si muove!
Dove sono?
Si reggono forte e si lasciano andare su su su su su, sopra gli alberi neri, fino alla ruota panoramica.
E salgono salgono, è altissima.
Salgono fino alla stella della sera.
Venere.
Vicina a una falce di luna.
In un cielo blu scuro trasparente, degradante in verde smeraldo.
E stanno lì.
Agganciano la ruota alla falce di luna.
Stanno lì, davanti a una tela di Mark, poi ci entrano.

(Laura Bucciarelli, 2019)


mercoledì 12 giugno 2019

Capodanno (monologo per una donna con valigia)


Non puoi immaginare quanto è facile avere della morfina.
Tornando a casa, ne ho trovate due fiale sul comò.
Qualcuno avrà già detto una cosa del genere.
Secondo la terapista del dolore, mia madre soffriva più di quanto non sembrasse.
In effetti, erano notti che urlava a ritmo del respiro.
Il resto non serviva più, così ha tirato fuori la morfina dalla borsa.
Dopo tre giorni, mia madre è morta e ho lasciato la morfina sul comò per un paio di mesi.
Poi l’ho riportata in ospedale.
Io non vado mai dal medico.
Ho fatto le ultime analisi del sangue nel 1989.
Non sono mai stata dal ginecologo.
Non vado dal dentista dai tempi del liceo.
Quando ho mal di denti prendo 6 aspirine al giorno per quindici giorni.
Quando ho la bronchite asmatica respiro piegata sul tavolo,
finché non chiamo la guardia medica,
che mi brontola, mi fa un’iniezione di cortisone
e mi spruzza il Ventolin a distanza di 20 centimetri dalla bocca – per non toccarlo.
Mi faccio una settimana di antibiotici e cortisone e dimentico tutto fino alla prossima volta.
Avevo i calcoli alla cistifellea e non so che fine hanno fatto.
Due anni di mal di schiena e non so per quale motivo.
Ho la cistite un mese sì e uno no.
Sono piena di escrescenze in tutto il corpo.
Non ci penso neanche a dimagrire.
La mia fortuna è che non sono malata.
Io sono sana.
Da malata, potrei mandare tutti al supermercato,
con i prodotti dai colori giusti, quelli che fanno vendere meglio
e avrei con la televisione accesa
per non guardare quei tre parenti
sopravvissuti all'epidemia di cancro.
Starei al computer a giocare a dress-up,
a vestire le bamboline giapponesi, come da piccoli,
con le bamboline di carta.
Non sto scherzando.
Mi vantavo di guardare in faccia il dolore.
Qualcuno avrà già detto una cosa del genere.
Sono andata a tutti i funerali,
in tutti gli ospedali,
ho guardato film d’essai,
ho abbracciato le persone.
Ho curato il dolore con un altro dolore,
una malattia con un’altra malattia.
Non mi sono cucita la fica né me la sono inchiodata,
non mi sono infilata aghi dentro ai capezzoli,
non mi sono tagliata finemente la pelle del culo,
non mi sono ricamata le guance,
non mi sono fatta sventrare con un rasoio,
non ho pisciato sangue blu.
Ho indossato abiti sobri,
ho tenuto comportamenti misurati,
sono stata accondiscendente,
sono stata complice,
ho detto di sì,
ho lasciato fare,
ho lasciato perdere,
ho lasciato andare,
ho permesso,
ho fatto finta,
ho dimenticato,
ho omesso,
mi sono fermata,
ho chiuso gli occhi,
ho dormito,
ho mangiato cibo avariato.
Ho cancellato i desideri.
Basta nascere sotto una buona stella.
Qualcuno avrà già detto una cosa del genere.
Non sto scherzando.
Non ho una malattia mortale.
Ma l’avrò presto.
Quand'è che le cose vanno proprio male?
Non è che non so immaginarlo.
È che il mondo non mi riguarda.
Il dolore del mondo non è il mio.
Ho la fantasia appiattita.
La morte è certo una condizione migliore
ma uno mi ha detto che i suicidi rivivono il suicidio per l’eternità –
se ti sei buttato dal sesto piano, ti butterai dal sesto piano,
se ti sei tagliato le vene, ti taglierai,
se ti sei impiccato, poi…
per sempre e con dolore -
perciò aspetterò.
Mi terrò la paura della morte
ma non è mica un lavoro
e la paura del dolore
ma non è mica nella lista della spesa.
Qualcuno avrà pur detto una cosa del genere.
Nel frattempo, voto per il re delle notti bianche
e l’apertura selvaggia dei negozi.
Vedo i film di natale – poltrona prenotata - alla multisala.
Faccio la fila in autostrada - senza pensare ai reparti di rianimazione.
Leggo i titoli dei giornali locali con i pensionati investiti dagli autobus, gli spacciatori albanesi e la programmazione dei cinema porno.
Faccio un nuovo contratto telefonico.
Rispondo di sì a tutti quelli che chiedono dieci euro
per la ricerca sul cancro,
la fibrosi cistica,
la leucemia,
le cardiopatie,
il morbo di Alzheimer,
la talassemia
e gli animali abbandonati.
Compro tre chili di arance al triplo del loro prezzo,
un uovo di Pasqua senza sorpresa dentro,
un bonsai che morirà entro una settimana,
una pianta di gardenie appassita.
Tutto pur di salvare il salvabile.
Non è detto che si debba soffrire per forza.
Qualcuno avrà pur detto una cosa del genere.
Ho deciso di partire.
Il mondo di notte, dall’aereo, è una costellazione.
Concentrazione massima di stelle
in agglomerati urbani ad alta densità abitativa e intrecci di strade a due corsie.
Concentrazione minima di stelle
nelle campagne, abitate da casali nobili e stalle per maiali morituri.
Questo me lo scrivo.
Qualcuno avrà mai detto una cosa del genere? E si dice? Eh?
Bisogna andare a passare l’ultimo dell’anno lontano da qui
per scappare dall’ultimo dell’anno di qui.
Non sto mica scherzando.
Penso a giornate seduta ai tavolini, a bere caffè e fumare.
In giro per librerie o musei. Mercati. Ristoranti.
Panchine comode di parchi immensi. Tram. Taxi. Metro.
Tutto a mezz’aria.
E non voglio parlarne con nessuno.
Quelli che mi parlano hanno molto da dire.
Hanno problemi che li torturano.
Hanno urgenze, emergenze, idee, programmi, progetti, soluzioni, domande.
La Politica. La Società. La Povertà. L’Arte. I Cani. Il Dolore. La Sofferenza. L’Amore.
Pensano anche per me. Menomale.
Non sto scherzando.
Qualcuno potrebbe capire male ma io sono sollevata.
Io voglio dimenticare tutte le parole che mi perseguitano.
Io non voglio avere ricordi.
In cielo, non vedo niente.
In alto è tutto nero, in basso è tutto nero.
Il mondo sparisce.
Un carrello stretto passa a vendere panini di plastica con burro e salame o burro e formaggio dal costo di 7 euro l’uno
oppure gratta e vinci e cataloghi di profumi e magliette della compagnia aerea.
Un mondo di colori a portata di mano.
Meglio della televisione.
Perché lo steward è biondo e sorride e fa le piroette con il giubbotto gonfiabile.
Non posso tollerare interferenze.
Morfina.
Niente fiabe.
Quando non dormivo mai,
mi raccontavo storie di morti, malattie, tradimenti e matrimoni –
io diventavo pazza e mio marito mi curava e mi tradiva e la sua famiglia mi disprezzava e poi io mi buttavo sotto un treno – e avevo 12 anni -
per piangere fino a stancarmi.
Bisogna avere buoni motivi per piangere.
Nessun motivo per nasconderne altri,
più terribili della vecchia che venne a uccidermi una notte
col coltello sullo stomaco.
Questo, non l’ha mai detto nessuno.
Adesso voglio essere felice e il mondo mi aiuta.
Con il bianco dei pavimenti, dei neon e delle pareti.
Luci accecanti con oggetti e musica.
Il supermercato più bianco dell’ospedale,
non è meraviglioso?
Non sto scherzando.
Voglio andare nel mondo.
Il mondo è fatto per me.
Le vie di fuga delle mattonelle nei centri commerciali mi danno le vertigini,
come un insetticida.
Sciami di scarafaggi a narici aperte.
Questo, qualcuno lo ha detto di sicuro.
Certo che, se salissi su un grattacielo, forse scivolerei giù.
E’ meraviglioso - sarei morta prima di arrivare a terra - ma meno efficace dei cartoni animati.
Willy il coyote ha un obiettivo.
Ha un desiderio. Uno, preciso.
Io parto. In volo.
L’interno è tutto bianco, foderato di plastica, morbido e la testa vibra.
È bellissimo. Non vorrei più scendere a terra.

di Laura Bucciarelli (2008)

Capodanno è un testo teatrale tutelato dalla SIAE.
Nel 2009, è stato finalista al Premio Oltreparola.

venerdì 31 maggio 2019

Training: una collezione


1 – Non hai alcun potere.
2 – Meno parli, meglio è.
3 – Non sai fare niente.
4 – Attento a quello che desideri.
5 – Non puoi cambiare.
6 – Non ti crede nessuno.
7 – Niente è importante.
8 – Bevi molto d’estate.
9 – System failure.
10 – Domani è un altro giorno.
11 – Se fallisci, affidati agli altri.
12 – Devi stare con gli altri.
13 – Siamo soli.
14 – I bambini devono giocare.
15 – Se non sei un bambino, smetti di giocare.
16 – Gioca tutta la vita.
17 – Tutto fa male.
18 – Nessuno è felice.
19 – Esci di sera solo per le emergenze.
20 – Non andare tardi al supermercato.
21 – Non mangiare gelato di mattina.
22 – System failure.
23 – Devi smettere di giocare prima o poi.
24 – Non chiudere la porta della camera da letto.
25 – Fai silenzio quando gli altri dormono.
26 – Tieni le serrande abbassate quando qualcuno sta male.
27 – E tutti giù per terra.
28 – Stai attento al contenuto delle bottiglie senza etichetta.
29 – Le donne non vivono da sole.
30 – Spegni la luce prima di uscire dalle stanze.
31 – Chiudi la porta a chiave durante la notte.
32 – Non buttare sigarette accese dal balcone.
33 – Non buttare resti di cibo dalla finestra.
34 – Non passare nudo davanti alle finestre aperte.
35 – System failure.
36 – Non parcheggiare la macchina fuori dai limiti segnati.
37 – Timbra il biglietto appena sali sull’autobus.
38 – Controlla la qualità dei prodotti che acquisti.
39 – Fai attenzione alle date di scadenza.
40 – Ogni formalità va rispettata.
41 – Tieni il tovagliolo sopra le ginocchia.
42 – Rispetta gli orari di riposo dei tuoi vicini.
43 – Non indossare abiti indecenti in chiesa.
44 – Prepara il tuo alibi.
45 – Difendi i più deboli.
46 – System failure.
47 – Fai attenzione ai carichi pendenti.
48 – Paga le tue scelte.
49 – Hai il diritto di mettere al mondo qualcun altro.
50 – A domanda, rispondi.
51 – Non rispondere se non interrogato.
52 – Siediti e aspetta.
53 – Fai lo scontrino prima di consumare.
54 – Le madri non tradiscono mai i figli.
55 – Ogni donna è fornita di istinto materno.
56 – Il postino suona sempre due volte.
57 – Non ballare nei ristoranti.
58 – Non portare coltelli senza giustificato motivo.
59 – Puoi portare coltelli con lama inferiore ai sei centimetri.
60 – System failure.
61 – Non entrare in contatto con il sangue altrui.
62 – Guarda la strada prima di attraversare.
63 – Pensa prima di agire.
64 – Hai bisogno degli altri.
65 – I diritti vanno conquistati.
66 – Ricompra gli oggetti di consumo prima che finiscano.
67 – Se non puoi donare una moneta, fai almeno un sorriso.
68 – Gli occhi sono lo specchio dell’anima.
69 – In casa indossa abiti da casa.
70 – Una volta rientrato in casa, rimani in casa.
71 – Non uscire dopo le dieci di sera.
72 – Se non asciughi bene i capelli, ti viene il mal di testa.
73 – Non tagliare i capelli di domenica.
74 – System failure.
75 – Non mangiare camminando.
76 – Non cantare nelle stazioni.
77 – Non cuocere le uova per più di dieci minuti.
78 – Qualsiasi cibo può diventare tossico.
79 – Prepara le valigie per tempo.
80 – A volte non è il momento giusto.
81 – Puoi sempre ricominciare daccapo.
82 – Spesso lasciar perdere è meglio che insistere.
83 – Le persone silenziose sono affascinanti.
84 – Non puoi essere come vuoi.
85 – Qualsiasi cosa tu faccia, racconti sempre la tua storia.
86 – La tua spontaneità parla dei condizionamenti che hai ricevuto.
87 – Parla poco e sottovoce.
88 – Non puoi avere sempre ragione.
89 – L’ospite è sacro.
90 – Ogni tentativo di fuga è inutile.
91 – Devi trovare una ragione per vivere.
92 – Devi avere una ragione per vivere.
93 – System failure.
94 – Non puoi vivere da solo.
95 – Per prima cosa devi aiutare chi ti sta vicino.
96 – Niente si dimentica.
97 – Gli anni passano.
98 – Non hai molto tempo.
99 – Nessuno è eterno.
100 – Il domani sarà migliore.
101 – Non mangiare uova a colazione.
102 – Rispetta gli orari stabiliti.
103 – Non fumare in ascensore.
104 – Tieni basso il volume.
105 – Non mangiare a letto.
106 – Non fare finta di nulla.
107 – Non essere vittima dei desideri.
108 – Non dimenticare le ricorrenze.
109 – Non saltare i pasti.
110 – Non mangiare fuori dai pasti.
111 – Imparare i numeri di telefono a memoria.
112 – Non uscire senza soldi.
113 – Tieni le chiavi a portata di mano.
114 – Non regalare fazzoletti.
115 – System failure.
116 – Non salire sull’autobus senza biglietto.
(...)
177 – Conserva almeno un cambio di biancheria intima nuova.
178 – Non stancarsi più del necessario.
179 – Superare i propri limiti.
180 – Non superare il limite.
181 – Sudare fa bene.
182 – …

(Laura Bucciarelli, 2000qualcosa)

venerdì 26 aprile 2019

Fumo




Bogey


“Non bisogna mai contraddire una donna. Basta aspettare: lo farà da sola.”
Bogey consumato, lui, le sue parole e il suo fumo, non lo sopporto.
Ho bisogno del suo aiuto.
“Posso essere più esplicito: non sai cosa vuoi, bambina.”
La più grande stella maschile di tutti i tempi è nata il giorno di Natale, Natale, dico, Natale, più di così…
“Non finisci una frase, bambina. Funziona in questo modo: tu mi dai un indizio e io ti do la risposta.”
“Basta poco, in effetti.”
Mostra segni di irritazione. Anch’io.
“So che i tuoi servizi sono molto richiesti, ma non sei il mio tipo.”
Con una smorfia, spinge il pacchetto verso di me.
“Posso?” Mentre gli chiedo il permesso, lo guardo come se avessi lunghe saracinesche su grandiosi occhi lucidi.
“Aspira, bambina, aspira, aspira, aspira, aspira, aspira”, dice mentre mi accende una sigaretta, finalmente.
“Lo avevo con me. Davanti agli occhi. Lo avevo portato con me. Lo avevo davanti agli occhi, lo avevo con me. Avevo fatto di tutto… Non si trovano più. Qualcuno deve averne fatto incetta, dicono che sia stata una setta.”
O una piccola fiammiferaia all’avanguardia che ha accettato il suo destino, o un artista installatore seriale.
“O un necrofilo in un momento di esplosione passionale” dice lui.
“Comunque ce l’avevo, non me lo sono immaginato. Era l’ultimo. Lui, quello che me l’ha venduto, aveva gli occhiali a specchio, esile, abito nero, cravatta fine come le sue gambe, valigetta di metallo, clac, clac, velluto nero ed eccolo lì, rosso, senza etichetta. Non era originale, lo sapevo, forse era di quelli riciclati, ma era un’occasione. Scatola di fiammiferi o accendino usa e getta in omaggio. Solo baratto. Ha detto. Uno dei miei incisivi sani per quello sballo maxi. Questo ha detto.”
“L’ultimo.”
“L’ultimo, sì.”
L’ultimo incisivo e l’ultimo… Da quando un certo tipo di plastica è diventata cibo da squagliare nella bocca dei nuovi petro-tossici, non si trovano più lumini da cimitero. Buona la plastica, via la candela, in cambio di un sano, originale dente umano. I petro-tossici sono anche detti vampiri sdentati. Il calore diretto sulle gengive è da orgasmo perciò la merce di scambio non è considerata importante. Il problema è che i denti finiscono. I propri.
“Era l’unico che ero riuscita a trovare dopo settimane e me l’hanno fregato.”
“Ora, come farai?”
Mi frana il terreno sotto i piedi. “Con il tuo aiuto, spero… Io devo ritrovare quel tipo, esile, abito nero, cravatta fine.”
Un fiammifero e Bogey scioglie un bicchiere davanti alla mia bocca da uccellino. Cerco di darmi un contegno. Non ho più niente da scambiare. Dovrei darmi alle stoviglie?
“Petrolio da poco”, dico.
Il sorriso di Bogey luccica alla mia voragine sdentata.


(di Laura Bucciarelli, 2010)



Smoke gets in your eyes, versione di Miles Davis

domenica 21 aprile 2019

Stagioni - Autunno


Saluto e mi allontano. Volto la schiena e mi allontano. Alzo i tacchi cammino faccio qualche passo mi fermo l'avrò detta quella cosa quella cosa l'avrò detta e se non l'ho detta come la prenderà cosa penserà di me forse penserà che ho fretta che sono distratta non che sono maleducata e egoista ma l'ho sicuramente detta quella cosa io non ne sono certa provo subito a telefonare scusa sai non sono sicura ma ti ho salutato prima? No scusa sai è che sono così distratta non vorrei sembrarti trascurata. Ma guarda che mi hai salutato più volte. Ah scusa scusa è che ho tanti pensieri per la testa e scusa penserai che sono una stupida. No figurati sì certo che lo pensa però almeno adesso sono sicura che ho detto ciao cioè non so se ho detto ciao o buonasera o magari buona serata e avrò detto a domani? Cioè l'appuntamento di domani sarà chiaro? Ma lo vedremo domani. Se non viene vuol dire che non ci siamo capiti. Già. Sono stata svagata non ho posto attenzione a tutte le parole una per una ci siamo salutati all'inizio ho chiesto come stai? Per non essere considerata troppo egoista. Ho ascoltato la risposta? Non mi ricordo come sta. Avrà detto bene insomma si va avanti come sempre più o meno bene sì bene dai. Cosa può aver detto? Mi sarei ricordata se avesse detto qualcos'altro. Sì insomma una malattia o magari la nascita di un figlio o di un gatto o un trasloco. Avrò chiesto come sta la sua famiglia. Avrà capito che non mi interessa. Ma io non devo aspettare solo le informazioni che mi interessano e io cosa avrò risposto? Non ricordo se mi ha chiesto come sto. Ma se l'ho chiesto io non vedo perché debba aver ricambiato per forza. Sennò sembra che uno lo faccia solo per educazione e non sta bene. Se uno chiede deve chiedere davvero e non solo per forma. Quindi se l'ho chiesto io non è stato chiesto a me. Forse mi comporterei così o forse no non farei così. E se non l'avessi chiesto per prima? Se fossi stata io la seconda? Resta il fatto che non ricordo se l'ho chiesto. Cos'è che volevo sapere. Di così importante. Non lo ricordo ma se era così importante perché non lo ricordo? Provo a ricostruire l'incontro e tutta la conversazione. Si sarà accorto che volevo evitarlo. Ho fatto un sorriso forzato? Ma lo faccio sempre anche se sono contenta perché non sono mai contenta quindi il sorriso è comunque forzato. Non è perché non voglio incontrare qualcuno comunque l'avrei voluto evitare è chiaro. Quindi se ne sarà accorto. Ho tenuto i piedi voltati verso la direzione che volevo percorrere? Come per andare via? Il mio sguardo ha scavalcato il suo viso lo ha attraversato mi sarò voltata al più impercettibile rumore? Dunque avrò sorriso e salutato con un saluto qualunque. Nessun contatto fisico questo credo di ricordarlo. Non potrei dimenticarlo. Oppure. Saltiamo i saluti. L'avrò guardato negli occhi un momento. Non ho chiesto come sta ho chiesto come va. Più neutro. Se l'ho chiesto ho chiesto come va. I capelli un po' troppo lunghi. Ai lati e la barba di qualche giorno e gli occhi un po' arrossati ma c'è vento c'è vento e anch'io sento bruciare gli occhi sulla passerella pedonale che attraversa la ferrovia e da cui a un certo punto si vede solo il cielo. E allora quello che volevo sapere riguardava forse qualcun altro o qualcos'altro sul passato o sul futuro forse su dove stava andando. Era solo una curiosità nel caso. Ci sono altre informazioni di grande importanza che avrei potuto chiedere e sicuramente le ho chieste. Ero distratta anche dal torcicollo e da una sensazione di gonfiore al viso. Penso che avrò tastato le guance più e più volte senza rendermene conto e sicuramente non avrò ascoltato. Perché io non ascolto quasi mai. Perché mi concentro sulle sensazioni e non riesco a fare due cose contemporaneamente. Mi sa che aveva fretta e avrà detto ci sentiamo presto o ci vediamo domani e parliamo un po' e allora l'avrò salutato ancora. Certamente se me l'ha detto anche al telefono vuol dire che è vero a meno che non l'abbia fatto per non farmi sentire troppo stupida. Ma si sarebbe fatto una risata se non l'avessi salutato e poi l'avessi chiamato per salutarlo perché uno non se la prende se non viene salutato senza motivo. Mica ce l'ho con lui. Non abbiamo mica litigato. Non ci siamo detti nessuna parola cattiva. Nessuna allusione nessuna ferita nemmeno un peccato veniale. E se avessi fatto una gaffe come capita spesso non ho alcuna delicatezza nel trattare argomenti intimi. Ma non mi sembra che abbiamo affrontato discorsi troppo personali forse abbiamo parlato del vento delle nuvole del tempo incerto e di quanto era strano incontrarsi proprio lì. Che poi perché strano. Ma questo lo penso io. Sono solo ipotesi bisogna che le metta tutte in fila una per una tutte le possibilità e che scarti quelle più improbabili e mi tenga quelle più probabili. Ecco e poi avrò una sintesi veritiera della nostra conversazione. E forse le informazioni che avrei voluto avere. Forse sono nascoste da qualche parte e adesso mi sfuggono. In quei fili di capelli fuori posto unti. Di chi non ha dormito a casa. Ma questo non è stato oggetto di conversazione. D'altronde io andavo a fare la spesa e l'avrò detto di sicuro. Che fai vado a fare la spesa. Questo è certo. Vado a fare la spesa. E ho la lista in tasca e questa è la cosa più importante che ho da dire. Sicuramente l'ho detta. Certo traspare una certa malinconia per come la vedo io sono sicura che avrà pensato quanto è triste una che non ha che da dire che va a fare la spesa. Già. A me i supermercati piacciono e non devo parlare con nessuno non chiedere non rispondere. Prendere lasciare riprendere pagare. Niente da registrare. Io amo le cose semplici ma non come pane e olio. Piuttosto come un programma televisivo di cui non ti perdi niente. Non rischio di perdermi niente. Io ho paura di perdermi troppe cose tra quelle che mi stanno intorno e quelle che mi camminano accanto e ora ho il pensiero dei tubi che perdono sotto il lavandino della cucina per questo non riesco a ricordare. Sono poche gocce ma non riesco a ricordare. Se fosse accaduto qualcosa me lo ricorderei. Se mi fosse caduto qualcosa dalla borsa me lo ricorderei io non perdo niente. Perdo parole. Ma perché non sto attenta alle voci. È l'incertezza secondo me che rende difficile ricordare. L'incertezza di aver capito in quel preciso momento. Il chiedersi sempre in quel preciso momento se ho capito bene. E questo mi fa perdere le parole successive e poi quelle successive e poi ancora e ancora. Non riesco più a recuperarle. Comunque ora so che ho salutato andando via perché l'ho chiesto e forse potrei chiedere altro. Tutte quelle gocce, una dopo l'altra, infinite, rimangono sospese e cadono, rimangono sospese e cadono. È sempre la stessa goccia? È sempre la stessa parola? Potrei chiedere di cosa abbiamo parlato. Ma di niente di niente. Mi risponderà. Proviamo. Forse mi risponderà così. Abbiamo parlato di niente. Non ti preoccupare. Non mi preoccupo. Io domani non vado. Non credo che ci sia un appuntamento. E non lo chiedo. Sicuramente mi sbaglio. Non c'è nessun appuntamento. L'autunno mi cola dentro il cranio. Gonfia, si dilata come una spugna. Io voglio guardarlo dai vetri. Essere spremuta via.

(Laura Bucciarelli, 2000qualcosa, rivisto nel 2019)



PFM, Impressioni di settembre 



sabato 20 aprile 2019

No resurrection


Memorie di corpi


Quando smetti di ricordare il rumore del coltello sulla carne, vuol dire che non sei più tu. Hai cambiato identità.

Quando le ferite si rimarginano e le vedi sfumare senza lasciare traccia, vuol dire che sei morta, il tuo sangue non scorre più. Vuol dire che affidi la tua memoria ad altri e sei finita, per sempre. Vuol dire che hai perso il controllo e non ricordi più il tuo nome.
Hai spostato il tuo peso all'esterno e sei convinta che ci sia un dentro separato da un fuori e un dopo causato da un prima.
Quanti dopo puoi contare senza che ci sia un prima, questo è l'importante.
La tua memoria è andata avanti invece di tornare indietro. La tua memoria può chiedersi solo cosa c'è dopo.

Apri il cassetto, vedi allineati tutti i tuoi strumenti. Se ti sembrano estranei, sei una morta che cammina. Usali per incollarti a te stessa, se ancora credi di esistere.
I tuoi passi non fanno più rumore, scivoli beatamente sul terreno più accidentato, del tutto inconsapevole e inebetita da quello che chiami passato o storia o vita.

Il primo coltello che hai usato stava nella cassettiera della cucina, un lungo coltello dalla lama dentata, molto affilato. Abituato alla carne, è bastato passarlo delicatamente sulla gamba sinistra, appena sopra il ginocchio, per veder uscire il liquido rosso.
La prima volta si è sempre imprudenti, ci si lascia prendere dal piacere dei sensi. Non si conosce la gioia di un rito ben orchestrato. Ci si affida a gesti inconsulti e animaleschi: grattare con le unghie, strappare le croste e godere degli zampilli che cadono in piccoli puntini rossi sul lenzuolo con cui ci si avvolgerà per dormire. È un piacere primitivo.

La prima volta che hai acquistato un coltello è stato il primo passo per fare delle tue scelte una collezione di cui avere cura.

Il secondo passo è stato scegliere le parti del corpo da tagliare, capirne le differenze anatomiche. Se non domandi, non hai responsabilità.

I coltellini da tasca così comodi per uscire, il rasoio per giocare, lame seghettate per i momenti più segreti, una realtà che rischia di disperdersi insieme a te.
Se non distingui le tue armi, non distingui i tuoi stati d’animo.

Apri il cassetto e scegli. Il tagliacarte con il fodero e il manico di legno ha una lama un po’ consumata ma ancora tagliente. Mettilo sul tavolo insieme alla garza bianca, all’acqua e al disinfettante. Non guasterebbe un po’ di fuoco anche se non è uno strumento molto sofisticato.
Siediti, diventa un’attrice. Segui la tua partitura, concediti poche improvvisazioni, in fondo non sei che una dilettante. Ancora ti vergogni.

Se non superi la vergogna, rimani legata al prima. Ogni tuo dopo avrà bisogno di un evento causale. Lascia che a un dopo segua un altro dopo e un altro dopo e un altro dopo ancora. C’è un solo prima. Che il tuo corpo ne diventi la tua memoria.

Le procedure nell'uso dei tuoi strumenti hanno una qualità estetica che supera la somma dei vantaggi che ti procurano. Se all'inizio sei colpita dal sollievo suscitato dalle tue pratiche, nel tempo scopri di ricavare piacere dalla scelta dei momenti, dalla preparazione, dalla cura, dall'attenzione prestata ad ogni singolo atto necessario a compiere la tua opera.

La tua opera è il tuo corpo. Le modificazioni che il tempo gli impone non influiscono sul tuo lavoro se dedichi la tua vita all'arte.

Rendi i tuoi atti del tutto inutili. Cedili ad una ripetizione infinita. Fidati delle tue mani, non temere l’imposizione di una sterilità senza scopo.

Puoi imparare nuove tecniche, se questo ti fa sentire meglio, ma le fughe non servono. Non serve rivolgersi ad altre mani.

L’opera d’arte è segreta, nessuno deve vederla fino alla fine. Se non è la completezza che cerchi, è meglio che lasci perdere.

All'improvviso ti accorgi che la pelle cade dalle ossa, la carne non ha consistenza, la prendi tra due dita e rimane piegata, molle come stoffa. Anche i colori sono cambiati. La faccia è sempre stata gialla ma ora lo sono anche gli occhi e i denti. I capelli si sono diradati. Assumi una postura curva e prendi l’abitudine di sederti di traverso appoggiando le gambe e la schiena ai braccioli di una poltrona come per rimanere raccolta e non disperderti. Sei una lumaca e, in piedi, un albero bruciato. Distesa, un tronco senza gambe.

Il dolore arriva dopo il taglio, con calma, non è mai immediato. La ferita pulsa al ritmo con cui esce il sangue, che provvedi a tamponare con cura. Il mucchietto di garze e cotone insanguinato è testimone della tua commozione.

Non lasciare che i tuoi segni svaniscano del tutto. Rinnovali più spesso che puoi, fanne di nuovi. I tuoi segni non sono parole, sono simboli, sono interi linguaggi, sono mondi, intere culture, sono il libro della tua liturgia. Non sono racconto. Sono la mappa per entrare nella mente.

L’unica verità raggiungibile è che facendoti male allontani la morte. Nessuno può farti più male del tuo coltello.

Quelle fragilità che ogni tanto si affacciano, riflesse in altri occhi, sono il ricordo di un desiderio. Tienile con te.
Chiedi cos'altro puoi sapere.


(Laura Bucciarelli, 2005)

lunedì 25 marzo 2019

Ice cream

1 - Down by law, film di Jim Jarmusch, 1986



2 - Ghost dog, film di Jim Jarmusch, 2000



3 - Van Halen, Ice Cream man


venerdì 22 marzo 2019

Riflessi/Riflessioni

1 - Riflessi sulla pelle (The reflecting skin), film di Philip Ridley, 1990



2 - Reflections, Dead vibrations



3 - Wislawa Szymborska, Lo specchio

Si, mi ricordo quella parete
nella nostra città rasa al suolo.
Si ergeva fin quasi al sesto piano.
Al quarto c’era uno specchio,
uno specchio assurdo
perché intatto, saldamente fissato.
Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a riavviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
“luogo”.
Era come durante le vacanze-
vi si rispecchiava il cielo vivo,
nubi in corsa nell’aria impetuosa,
polvere di macerie lavata dalla pioggia
lucente, e uccelli in volo, le stelle, il sole all’alba.
E cosi come ogni oggetto fatto bene,
funzionava in modo inappuntabile,
con professionale assenza di stupore

4 - Lo specchio scuro (The dark mirror), film di Robert Siodmak, 1946


5 - Sylvia Plath, Specchio
Sono d’argento e rigoroso. Non ho preconcetti.
Quello che vedo lo ingoio all’istante
Così com’è, non velato da amore o da avversione.
Non sono crudele, sono solo veritiero –
L’occhio di un piccolo dio, quadrangolare.
Passo molte ore a meditare sulla parete di fronte.
È rosa e macchiettata. La guardo da tanto tempo
Che credo faccia parte del mio cuore. Ma c’è e non c’è.
Facce e buio ci separano ripetutamente.
Ora sono un lago. Una donna si china su di me
cercando nella mia distesa ciò che essa è veramente.
Poi si volge alle candele o alla luna, quelle bugiarde.
Vedo la sua schiena e la rifletto fedelmente.
Lei mi ricompensa con lacrime e un agitare di mani.
Sono importante per lei. Va e viene.
Ogni mattina è sua la faccia che prende il posto del buio.
In me ha annegato una ragazza e in me una vecchia
Sale verso di lei giorno dopo giorno come un pesce tremendo.

sabato 16 marzo 2019

Black


1 – Black dog, Led Zeppelin



2 – BlacKkKlansman, film di Spike Lee, 2018



3 – Poeta nero, Antonin Artaud

Ti assilla un seno di vergine,
poeta nero,
poeta inacidito, mentre la vita bolle
e la città arde,
e il cielo si riassorbe in pioggia,
e la tua penna graffia al cuore della vita.

Foresta, foresta brulicante d’occhi
sui pinoli disseminati;
chiome di bufera, i poeti
inforcano cavalli e cani.

Gli occhi si infuriano, le lingue girano
il cielo fluisce nelle narici
come un latte nutriente e azzurro;
io sono appeso alle vostre bocche
donne, aspri cuori di aceto.


4 – Nero Wolfe


5 – Black light theatre


lunedì 11 marzo 2019




Tutta una bugia, Edizioni Progetto Cultura, 2019

Tutta una bugia è una raccolta di otto racconti scritti in prima persona, ma si potrebbe dire una raccolta di 'voci' perché la forma racconto viene spesso tradita. Non tutti infatti hanno una linea narrativa in senso proprio. Alcuni si accostano alla materia onirica. In effetti si può affermare che i temi della raccolta sono il sogno e la mimesi: le protagoniste (sì, tutte di genere femminile) si nascondono in un'identità diversa dalla propria o si identificano con una parte di sé o con un luogo o con un desiderio di cambiamento. È però una mimesi per lo più inconsapevole, come se la realtà si potesse piegare allo stesso modo della fantasia.

"... una raccolta da cui il lettore non può aspettarsi alcuna concessione, né può attendersi di essere vezzeggiato ed accompagnato come un bimbo in un parco giochi..." dalle Note di commento di Laura Pompili

www.progettocultura.it/1010-tutta-una-bugia




Doris every day e Pensare-programma delicato, Edizioni Progetto Cultura, 2017

Due testi teatrali.

Dalla prefazione di Fabio Massimo Franceschelli:
"Doris every day e Pensare – programma delicato sono i due ideali tempi (consequenziali, come richiede la freccia del tempo) di un unico percorso umano e psicologico. La drammaturgia si adegua al vissuto della protagonista – delle due protagoniste, dovrei dire, ma, appunto, preferisco vederle svanire come doppio e ricomporsi, l’una nell’altra, in una indivisibile unità – e si contrappone, nei due testi, come lo zenit e il nadir individuati dal solitario punto di vista della donna al centro delle due narrazioni, che è anche il solitario punto di vista della drammaturga, che è anche e sempre il solitario punto di vista dell’artista."
E ancora:
"In Doris every day è in scena il parossismo del sogno americano veicolato dallo schermo televisivo che, a ben pensare, reitera il sogno della purezza ariana. Il “chi sono io” desidera la purezza e la perfezione, ideali che si stagliano imponenti per ridurti all’impotenza, un’impotenza malata e nevrotica, in direzione della psicosi. E una personalità nevrotica non può che farsi forma drammatica attraverso un testo nervoso, sincopato, sussultante e fortemente ritmato."
E ancora:
"La tragedia, dettata dalla hybris di Doris, e la commedia che consegue la sconfitta di Pensare. Una tragedia in forma di monologo grottesco e distopico, e una commedia in forma di monologo drammatico non meno grottesco. Drammaturgicamente l’opzione è più tradizionale, narrativa almeno nella misura in cui la protagonista racconta se stessa, i suoi pochi e vaghi ricordi e il suo reiterato, indegno di nota, quotidiano."



La casa, EEEdizioni ebook, 2016

"Impossibile non pensare a Beckett, leggendo questo atto unico. In una casa vuota e inospitale, persa in una campagna buia e senza punti di riferimento, tre personaggi dialogano tra loro, girando intorno a una misteriosa valigia, unica suppellettile presente nell’ambiente. All’assurdo si aggiunge anche una puntina di horror, quel tanto che basta per speziare un dialogo scarno e ambiguo. È lo spettatore che, assistendo alla scena, costruisce ipotesi di possibili storie e con la sua immaginazione crea il mondo esterno e l’ambiente interno, ambedue densi di incognite e poco rassicuranti, metafore di un mondo inospitale e della difficoltà dei rapporti umani e della comunicazione interpersonale."

La casa è il testo vincitore dell’edizione 2015 del concorso “Un bagaglio di idee”, indetto dalla
Fed. It. Art