lunedì 8 luglio 2019

Il mio requiem


Non riesco a sterzare e volare giù dal ponte. Ora raddrizzo la curva, mi spiaccico sul parapetto. Non morirò e mi chiederanno se ho provocato apposta l’incidente perché non ci saranno tracce di frenata sull'asfalto e dirò sì, certo e tutti mi lasceranno in pace perché io voglio essere lasciata in pace.
Sì, adesso parto col rosso, sì, mi butto sotto un autobus, sì, scavalco il parapetto, affondo il coltello. Sul terrazzo, guardo di sotto. Sono al secondo piano, rimarrei storpia e così avrei nuovi motivi di cui lamentarmi e pessime ragioni per ammazzarmi.

Domenica mattina ho deciso di lavarla. Non si alzava dal letto e non mangiava più. Aveva la faccia gialla. La sera prima aveva rifiutato l’antidolorifico, le avevo messo la pasticca in bocca e lei mi aveva morso un dito. La pasticca, poi, l’ho ritrovata nel letto. Erano giorni che, nel torpore, si lamentava e respirava rumorosamente. Quella mattina le misurai il diabete, poi preparai una bacinella con acqua tiepida. La spogliai, la lavai con una spugna, le spalle, il petto, le gambe, una alla volta, le cambiai la biancheria intima e la camicia da notte. Era arresa. E pesante. Quando la distesi, le feci stavano già iniziando a riempire le mutande, non finivo di pulirla che si sporcava di nuovo, respirò due volte, poi smise. Rimasi a guardarla, aveva gli occhi spalancati su di me, forse respirò un’altra volta, io la chiamavo.
Il medico chiese se volevo che provasse a rianimarla. Gli infermieri la misero a terra, le tagliarono la camicia da notte e tirarono fuori quello strumento da inserire in gola. Il medico disse che dopo sarebbe stato peggio. Lo fermai. Dopo, gli chiesi se era morta di sicuro.

Temevo più di tutto il momento in cui la bara sarebbe stata murata perché era stata la cosa che, in passato, mi aveva impressionato di più e invece mi sono messa a osservare i gesti del muratore. Metteva poco cemento e uno, due, tre mattoni interi. Il quarto lo doveva spezzare perché intero non entrava. Lo rompeva sul pavimento, con uno dei suoi strumenti. Frantumò tre o quattro mattoni prima di ottenere la misura giusta. Di spalle, accucciato, forse sentiva i miei occhi addosso e io mi guardavo intorno, in cerca di complicità sulla divertente imprecisione di quelle azioni.

Sì, adesso mi spacco il cranio con un martello, sì, mi faccio pestare finché non ho tutte le ossa spappolate.


(Laura Bucciarelli, 2009 o giù di lì)