venerdì 26 aprile 2019

Fumo




Bogey


“Non bisogna mai contraddire una donna. Basta aspettare: lo farà da sola.”
Bogey consumato, lui, le sue parole e il suo fumo, non lo sopporto.
Ho bisogno del suo aiuto.
“Posso essere più esplicito: non sai cosa vuoi, bambina.”
La più grande stella maschile di tutti i tempi è nata il giorno di Natale, Natale, dico, Natale, più di così…
“Non finisci una frase, bambina. Funziona in questo modo: tu mi dai un indizio e io ti do la risposta.”
“Basta poco, in effetti.”
Mostra segni di irritazione. Anch’io.
“So che i tuoi servizi sono molto richiesti, ma non sei il mio tipo.”
Con una smorfia, spinge il pacchetto verso di me.
“Posso?” Mentre gli chiedo il permesso, lo guardo come se avessi lunghe saracinesche su grandiosi occhi lucidi.
“Aspira, bambina, aspira, aspira, aspira, aspira, aspira”, dice mentre mi accende una sigaretta, finalmente.
“Lo avevo con me. Davanti agli occhi. Lo avevo portato con me. Lo avevo davanti agli occhi, lo avevo con me. Avevo fatto di tutto… Non si trovano più. Qualcuno deve averne fatto incetta, dicono che sia stata una setta.”
O una piccola fiammiferaia all’avanguardia che ha accettato il suo destino, o un artista installatore seriale.
“O un necrofilo in un momento di esplosione passionale” dice lui.
“Comunque ce l’avevo, non me lo sono immaginato. Era l’ultimo. Lui, quello che me l’ha venduto, aveva gli occhiali a specchio, esile, abito nero, cravatta fine come le sue gambe, valigetta di metallo, clac, clac, velluto nero ed eccolo lì, rosso, senza etichetta. Non era originale, lo sapevo, forse era di quelli riciclati, ma era un’occasione. Scatola di fiammiferi o accendino usa e getta in omaggio. Solo baratto. Ha detto. Uno dei miei incisivi sani per quello sballo maxi. Questo ha detto.”
“L’ultimo.”
“L’ultimo, sì.”
L’ultimo incisivo e l’ultimo… Da quando un certo tipo di plastica è diventata cibo da squagliare nella bocca dei nuovi petro-tossici, non si trovano più lumini da cimitero. Buona la plastica, via la candela, in cambio di un sano, originale dente umano. I petro-tossici sono anche detti vampiri sdentati. Il calore diretto sulle gengive è da orgasmo perciò la merce di scambio non è considerata importante. Il problema è che i denti finiscono. I propri.
“Era l’unico che ero riuscita a trovare dopo settimane e me l’hanno fregato.”
“Ora, come farai?”
Mi frana il terreno sotto i piedi. “Con il tuo aiuto, spero… Io devo ritrovare quel tipo, esile, abito nero, cravatta fine.”
Un fiammifero e Bogey scioglie un bicchiere davanti alla mia bocca da uccellino. Cerco di darmi un contegno. Non ho più niente da scambiare. Dovrei darmi alle stoviglie?
“Petrolio da poco”, dico.
Il sorriso di Bogey luccica alla mia voragine sdentata.


(di Laura Bucciarelli, 2010)



Smoke gets in your eyes, versione di Miles Davis

domenica 21 aprile 2019

Stagioni - Autunno


Saluto e mi allontano. Volto la schiena e mi allontano. Alzo i tacchi cammino faccio qualche passo mi fermo l'avrò detta quella cosa quella cosa l'avrò detta e se non l'ho detta come la prenderà cosa penserà di me forse penserà che ho fretta che sono distratta non che sono maleducata e egoista ma l'ho sicuramente detta quella cosa io non ne sono certa provo subito a telefonare scusa sai non sono sicura ma ti ho salutato prima? No scusa sai è che sono così distratta non vorrei sembrarti trascurata. Ma guarda che mi hai salutato più volte. Ah scusa scusa è che ho tanti pensieri per la testa e scusa penserai che sono una stupida. No figurati sì certo che lo pensa però almeno adesso sono sicura che ho detto ciao cioè non so se ho detto ciao o buonasera o magari buona serata e avrò detto a domani? Cioè l'appuntamento di domani sarà chiaro? Ma lo vedremo domani. Se non viene vuol dire che non ci siamo capiti. Già. Sono stata svagata non ho posto attenzione a tutte le parole una per una ci siamo salutati all'inizio ho chiesto come stai? Per non essere considerata troppo egoista. Ho ascoltato la risposta? Non mi ricordo come sta. Avrà detto bene insomma si va avanti come sempre più o meno bene sì bene dai. Cosa può aver detto? Mi sarei ricordata se avesse detto qualcos'altro. Sì insomma una malattia o magari la nascita di un figlio o di un gatto o un trasloco. Avrò chiesto come sta la sua famiglia. Avrà capito che non mi interessa. Ma io non devo aspettare solo le informazioni che mi interessano e io cosa avrò risposto? Non ricordo se mi ha chiesto come sto. Ma se l'ho chiesto io non vedo perché debba aver ricambiato per forza. Sennò sembra che uno lo faccia solo per educazione e non sta bene. Se uno chiede deve chiedere davvero e non solo per forma. Quindi se l'ho chiesto io non è stato chiesto a me. Forse mi comporterei così o forse no non farei così. E se non l'avessi chiesto per prima? Se fossi stata io la seconda? Resta il fatto che non ricordo se l'ho chiesto. Cos'è che volevo sapere. Di così importante. Non lo ricordo ma se era così importante perché non lo ricordo? Provo a ricostruire l'incontro e tutta la conversazione. Si sarà accorto che volevo evitarlo. Ho fatto un sorriso forzato? Ma lo faccio sempre anche se sono contenta perché non sono mai contenta quindi il sorriso è comunque forzato. Non è perché non voglio incontrare qualcuno comunque l'avrei voluto evitare è chiaro. Quindi se ne sarà accorto. Ho tenuto i piedi voltati verso la direzione che volevo percorrere? Come per andare via? Il mio sguardo ha scavalcato il suo viso lo ha attraversato mi sarò voltata al più impercettibile rumore? Dunque avrò sorriso e salutato con un saluto qualunque. Nessun contatto fisico questo credo di ricordarlo. Non potrei dimenticarlo. Oppure. Saltiamo i saluti. L'avrò guardato negli occhi un momento. Non ho chiesto come sta ho chiesto come va. Più neutro. Se l'ho chiesto ho chiesto come va. I capelli un po' troppo lunghi. Ai lati e la barba di qualche giorno e gli occhi un po' arrossati ma c'è vento c'è vento e anch'io sento bruciare gli occhi sulla passerella pedonale che attraversa la ferrovia e da cui a un certo punto si vede solo il cielo. E allora quello che volevo sapere riguardava forse qualcun altro o qualcos'altro sul passato o sul futuro forse su dove stava andando. Era solo una curiosità nel caso. Ci sono altre informazioni di grande importanza che avrei potuto chiedere e sicuramente le ho chieste. Ero distratta anche dal torcicollo e da una sensazione di gonfiore al viso. Penso che avrò tastato le guance più e più volte senza rendermene conto e sicuramente non avrò ascoltato. Perché io non ascolto quasi mai. Perché mi concentro sulle sensazioni e non riesco a fare due cose contemporaneamente. Mi sa che aveva fretta e avrà detto ci sentiamo presto o ci vediamo domani e parliamo un po' e allora l'avrò salutato ancora. Certamente se me l'ha detto anche al telefono vuol dire che è vero a meno che non l'abbia fatto per non farmi sentire troppo stupida. Ma si sarebbe fatto una risata se non l'avessi salutato e poi l'avessi chiamato per salutarlo perché uno non se la prende se non viene salutato senza motivo. Mica ce l'ho con lui. Non abbiamo mica litigato. Non ci siamo detti nessuna parola cattiva. Nessuna allusione nessuna ferita nemmeno un peccato veniale. E se avessi fatto una gaffe come capita spesso non ho alcuna delicatezza nel trattare argomenti intimi. Ma non mi sembra che abbiamo affrontato discorsi troppo personali forse abbiamo parlato del vento delle nuvole del tempo incerto e di quanto era strano incontrarsi proprio lì. Che poi perché strano. Ma questo lo penso io. Sono solo ipotesi bisogna che le metta tutte in fila una per una tutte le possibilità e che scarti quelle più improbabili e mi tenga quelle più probabili. Ecco e poi avrò una sintesi veritiera della nostra conversazione. E forse le informazioni che avrei voluto avere. Forse sono nascoste da qualche parte e adesso mi sfuggono. In quei fili di capelli fuori posto unti. Di chi non ha dormito a casa. Ma questo non è stato oggetto di conversazione. D'altronde io andavo a fare la spesa e l'avrò detto di sicuro. Che fai vado a fare la spesa. Questo è certo. Vado a fare la spesa. E ho la lista in tasca e questa è la cosa più importante che ho da dire. Sicuramente l'ho detta. Certo traspare una certa malinconia per come la vedo io sono sicura che avrà pensato quanto è triste una che non ha che da dire che va a fare la spesa. Già. A me i supermercati piacciono e non devo parlare con nessuno non chiedere non rispondere. Prendere lasciare riprendere pagare. Niente da registrare. Io amo le cose semplici ma non come pane e olio. Piuttosto come un programma televisivo di cui non ti perdi niente. Non rischio di perdermi niente. Io ho paura di perdermi troppe cose tra quelle che mi stanno intorno e quelle che mi camminano accanto e ora ho il pensiero dei tubi che perdono sotto il lavandino della cucina per questo non riesco a ricordare. Sono poche gocce ma non riesco a ricordare. Se fosse accaduto qualcosa me lo ricorderei. Se mi fosse caduto qualcosa dalla borsa me lo ricorderei io non perdo niente. Perdo parole. Ma perché non sto attenta alle voci. È l'incertezza secondo me che rende difficile ricordare. L'incertezza di aver capito in quel preciso momento. Il chiedersi sempre in quel preciso momento se ho capito bene. E questo mi fa perdere le parole successive e poi quelle successive e poi ancora e ancora. Non riesco più a recuperarle. Comunque ora so che ho salutato andando via perché l'ho chiesto e forse potrei chiedere altro. Tutte quelle gocce, una dopo l'altra, infinite, rimangono sospese e cadono, rimangono sospese e cadono. È sempre la stessa goccia? È sempre la stessa parola? Potrei chiedere di cosa abbiamo parlato. Ma di niente di niente. Mi risponderà. Proviamo. Forse mi risponderà così. Abbiamo parlato di niente. Non ti preoccupare. Non mi preoccupo. Io domani non vado. Non credo che ci sia un appuntamento. E non lo chiedo. Sicuramente mi sbaglio. Non c'è nessun appuntamento. L'autunno mi cola dentro il cranio. Gonfia, si dilata come una spugna. Io voglio guardarlo dai vetri. Essere spremuta via.

(Laura Bucciarelli, 2000qualcosa, rivisto nel 2019)



PFM, Impressioni di settembre 



sabato 20 aprile 2019

No resurrection


Memorie di corpi


Quando smetti di ricordare il rumore del coltello sulla carne, vuol dire che non sei più tu. Hai cambiato identità.

Quando le ferite si rimarginano e le vedi sfumare senza lasciare traccia, vuol dire che sei morta, il tuo sangue non scorre più. Vuol dire che affidi la tua memoria ad altri e sei finita, per sempre. Vuol dire che hai perso il controllo e non ricordi più il tuo nome.
Hai spostato il tuo peso all'esterno e sei convinta che ci sia un dentro separato da un fuori e un dopo causato da un prima.
Quanti dopo puoi contare senza che ci sia un prima, questo è l'importante.
La tua memoria è andata avanti invece di tornare indietro. La tua memoria può chiedersi solo cosa c'è dopo.

Apri il cassetto, vedi allineati tutti i tuoi strumenti. Se ti sembrano estranei, sei una morta che cammina. Usali per incollarti a te stessa, se ancora credi di esistere.
I tuoi passi non fanno più rumore, scivoli beatamente sul terreno più accidentato, del tutto inconsapevole e inebetita da quello che chiami passato o storia o vita.

Il primo coltello che hai usato stava nella cassettiera della cucina, un lungo coltello dalla lama dentata, molto affilato. Abituato alla carne, è bastato passarlo delicatamente sulla gamba sinistra, appena sopra il ginocchio, per veder uscire il liquido rosso.
La prima volta si è sempre imprudenti, ci si lascia prendere dal piacere dei sensi. Non si conosce la gioia di un rito ben orchestrato. Ci si affida a gesti inconsulti e animaleschi: grattare con le unghie, strappare le croste e godere degli zampilli che cadono in piccoli puntini rossi sul lenzuolo con cui ci si avvolgerà per dormire. È un piacere primitivo.

La prima volta che hai acquistato un coltello è stato il primo passo per fare delle tue scelte una collezione di cui avere cura.

Il secondo passo è stato scegliere le parti del corpo da tagliare, capirne le differenze anatomiche. Se non domandi, non hai responsabilità.

I coltellini da tasca così comodi per uscire, il rasoio per giocare, lame seghettate per i momenti più segreti, una realtà che rischia di disperdersi insieme a te.
Se non distingui le tue armi, non distingui i tuoi stati d’animo.

Apri il cassetto e scegli. Il tagliacarte con il fodero e il manico di legno ha una lama un po’ consumata ma ancora tagliente. Mettilo sul tavolo insieme alla garza bianca, all’acqua e al disinfettante. Non guasterebbe un po’ di fuoco anche se non è uno strumento molto sofisticato.
Siediti, diventa un’attrice. Segui la tua partitura, concediti poche improvvisazioni, in fondo non sei che una dilettante. Ancora ti vergogni.

Se non superi la vergogna, rimani legata al prima. Ogni tuo dopo avrà bisogno di un evento causale. Lascia che a un dopo segua un altro dopo e un altro dopo e un altro dopo ancora. C’è un solo prima. Che il tuo corpo ne diventi la tua memoria.

Le procedure nell'uso dei tuoi strumenti hanno una qualità estetica che supera la somma dei vantaggi che ti procurano. Se all'inizio sei colpita dal sollievo suscitato dalle tue pratiche, nel tempo scopri di ricavare piacere dalla scelta dei momenti, dalla preparazione, dalla cura, dall'attenzione prestata ad ogni singolo atto necessario a compiere la tua opera.

La tua opera è il tuo corpo. Le modificazioni che il tempo gli impone non influiscono sul tuo lavoro se dedichi la tua vita all'arte.

Rendi i tuoi atti del tutto inutili. Cedili ad una ripetizione infinita. Fidati delle tue mani, non temere l’imposizione di una sterilità senza scopo.

Puoi imparare nuove tecniche, se questo ti fa sentire meglio, ma le fughe non servono. Non serve rivolgersi ad altre mani.

L’opera d’arte è segreta, nessuno deve vederla fino alla fine. Se non è la completezza che cerchi, è meglio che lasci perdere.

All'improvviso ti accorgi che la pelle cade dalle ossa, la carne non ha consistenza, la prendi tra due dita e rimane piegata, molle come stoffa. Anche i colori sono cambiati. La faccia è sempre stata gialla ma ora lo sono anche gli occhi e i denti. I capelli si sono diradati. Assumi una postura curva e prendi l’abitudine di sederti di traverso appoggiando le gambe e la schiena ai braccioli di una poltrona come per rimanere raccolta e non disperderti. Sei una lumaca e, in piedi, un albero bruciato. Distesa, un tronco senza gambe.

Il dolore arriva dopo il taglio, con calma, non è mai immediato. La ferita pulsa al ritmo con cui esce il sangue, che provvedi a tamponare con cura. Il mucchietto di garze e cotone insanguinato è testimone della tua commozione.

Non lasciare che i tuoi segni svaniscano del tutto. Rinnovali più spesso che puoi, fanne di nuovi. I tuoi segni non sono parole, sono simboli, sono interi linguaggi, sono mondi, intere culture, sono il libro della tua liturgia. Non sono racconto. Sono la mappa per entrare nella mente.

L’unica verità raggiungibile è che facendoti male allontani la morte. Nessuno può farti più male del tuo coltello.

Quelle fragilità che ogni tanto si affacciano, riflesse in altri occhi, sono il ricordo di un desiderio. Tienile con te.
Chiedi cos'altro puoi sapere.


(Laura Bucciarelli, 2005)